(dal sito internet de La Repubblica – Roberto Petrini)
ROMA – Le parole d’ordine che si sono sentite negli ultimi due anni erano “scongiurare”, “sterilizzare”, “disinnescare”, “abrogare”. Cosa? La temibile clausola di salvaguardia, cioè l’assegno in bianco che i governi italiani hanno cominciato da qualche anno a firmare a garanzia dei tagli alla spesa: se non vengono fatti i tagli, si garantisce in alternativa un aumento dell’Iva. Oppure, se ci riesce, come è avvenuto con la Stabilità di quest’anno, si rinnova la cambiale e la si riporta all’anno successivo. Così l’aumento dell’Iva che sarebbe dovuto scattare il 1° gennaio del 2016 è stato “sterilizzato” per 12,8 miliardi e ora se ne ripropone un altro, se non saranno tagliate le spese, di altri 15,1 miliardi dal 1° gennaio del 2017.

 

Il governo Renzi non ha cambiato linea e non ha assolutamente intenzione di far scattare l’aumento dell’Iva di tre punti per l’aliquota intermedia del 10 per cento che arriverebbe al 13 per cento e di due punti per l’aliquota ordinaria dall’attuale 22 al 24 per cento. Così si è sempre sostenuto al Tesoro e a Palazzo Chigi, aiutati dall’argomento che l’Iva spinge l’inflazione e che l’inflazione è una tassa ingiusta sui redditi fissi e sui salari. Tuttavia, nel passato, a questa regola si è derogato: con il governo Letta e il ministro del Tesoro Saccomanni, ad esempio, la clausola di salvaguardia fu fatta scattare e nell’ottobre del 2013 l’Iva aumentò dal 21 al 22 per cento (con un gettito aggiuntivo di 4 miliardi). Non ci furono danni particolari per l’inflazione, data la recessione che affliggeva il paese, ma dopo di allora nessuno ha più accennato al fatto che l’Iva si potesse aumentare.

 

A violare il tabù di politica economica è stata così la Corte dei conti nel suo Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, del marzo 2016, appena pubblicato. Sul piano generale si consiglia di aumentare l’Iva (misura che andrebbe unita ad un taglio di spese) per un motivo ben preciso: finanziare riduzioni dell’Irpef e al costo del lavoro al fine di rilanciare l’economia. Inoltre sgombra il campo dall’obiezione più diffusa: l’operazione non avrebbe un impatto distorsivo perché siamo in deflazione e il pericolo numero uno dell’Iva, cioè l’inflazione, non farebbe più paura.

 

Ma il ragionamento della Corte dei Conti va oltre ed entra nel merito di una serie di argomenti strutturali che consiglierebbero l’aumento dell’Iva nel nostro pase, come del resto sembrerebbe pensare la Commissione europea che, ad esempio, durante il caso Grecia fece una battaglia per l’incremento dell’imposta sui consumi. In primo luogo l’Iva in Italia pesa solo il 6 per cento del Pil contro il 7,8 dei paesi dell’Unione europea; mentre le imposte dirette, che colpiscono imprese e persone, sono al 14,7, circa due punti superiori ai nostri partner. Ne conseguono alcuni elementi che fanno del fisco italiano un freno allo sviluppo: l’Italia è al secondo posto in Europa per prelievo sui reddita da lavoro (otto punti sopra la media dell’Unione) e al terzo posto per pressione sui redditi d’impresa. Chi consuma e chi produce è tartassato. Perché non spostarne il peso?

 

I consumi, al contrario, hanno una tassazione di quattro punti più bassa della media europea: siamo al ventiduesimo posto in Europa. Inoltre la nostra Iva è a “basso rendimento”, come si esprimono a Bruxelles, un giudizio basato su un indicatore che tiene conto del tasso di evasione, del numero di agevolazioni e del livello delle aliquote. Mentre infatti il livello delle aliquote italiane è tra i più alti d’Europa, quando andiamo a vedere la base imponibile si scopre – come spiega la Corte dei Conti – che la quota assoggettata ad aliquote ridotte è molto alta, cioè del 43 per cento dell’imponibile, quasi il doppio dell’Europa. Un fenomeno che trova conferma nel numero di agevolazioni presenti nel nostro ordinamento: sono ben 117. L’altro aspetto che mina il gettito della nostra Iva è l’evasione: un fenomeno ben conosciuto ma sempre incombente. In buona sostanza, tra politiche fiscali ed evasione emerge un tax gap di circa 40 miliardi che mancano alle casse dello Stato.

 

Si può evitare la sterilizzazione dell’Iva e lasciarla correre contando sulla deflazione? Il governo teme l’effetto psicologico. Tuttavia la Corte di Conti, con diligenza, fornisce lo scenario che scaturirebbe da un aumento dell’Iva al 13 e al 24 per cento. L’incasso sarebbe naturalmente di 15,1 miliardi (a tanto ammonta la clausola di salvaguardia); il prelievo per famiglia sarebbe di circa 420 euro e l’inflazione salirebbe di 1,4 punti. In cambio, sembrerebbe di capire, si indirizzerebbero risorse alle buste paga. Una sorta di patto contro la deflazione invece che contro l’inflazione. Questa è la cornice fornita dalla Corte dei Conti, la scelta è politica.