Secondo un’indagine di Federazione Moda Italia sui saldi invernali, a gennaio il dato delle vendite scende in picchiata rispetto a gennaio 2020 con le vendite di abbigliamento, calzature e accessori a -41,1% in media. Quasi il 90% dei negozi (88,9%) ha infatti dichiarato di aver subito un calo delle vendite rispetto allo stesso periodo del 2020. Il 7,7% ha registrato una stabilità nelle vendite e poco più del 3% (3,4%) un incremento. “Nessun segnale di miglioramento per le vendite dei negozi del settore moda nel mese di gennaio di quest’anno su gennaio 2020. Solo nel weekend appena trascorso, con l’Italia in zona gialla quasi ovunque, in particolare nella giornata di sabato, abbiamo visto qualche segnale ma solo nei posti dove c’è stato bel tempo“. A descrivere una situazione “drammatica oltre che per l’emergenza sanitaria, anche per la crisi economica” è Massimo Torti, segretario generale di Federazione Moda Italia. Quasi un’impresa su due (45%) ha dichiarato un calo tra il 50 e il 90% delle vendite nel primo mese di gennaio 2021 rispetto allo
stesso periodo del 2020. Ad aver penalizzato moltissimo queste categorie di esercizi sono stati diversi fattori che hanno letteralmente “tartassato” a gennaio il settore moda. A cominciare dai 5 giorni di chiusura obbligata agli inizi di gennaio dal 1 al 6 gennaio, a eccezione del 4, di tutte le attività della moda, con eccezione, in via veramente residuale, di poche attività relative alla vendita di prodotti di prima necessità (negozi di intimo; abbigliamento bimbo e calzature bimbo), articoli per la pratica dello sport ed inoltre, degli esercizi commerciali presenti all’interno dei centri commerciali anche nei giorni prefestivi e festivi. A giocare a sfavore anche l’inserimento di alcuni
territori (Lombardia, Sicilia e Provincia autonoma di Bolzano) in fascia rossa, con negozi di moda chiusi proprio nel bel mezzo dei saldi. Ancora le restrizioni agli spostamenti tra regioni ed addirittura tra Comuni.
Inoltre, il grande utilizzo dello smart working nel pubblico e nel privato, il minor reddito disponibile dei consumatori, la totale assenza dello shopping tourism e, non ultimo, il venir meno delle occasioni d’incontro di lavoro e nel privato (pranzi, cene, eventi, feste, cerimonie, cinema, teatri, musei, piscine, palestre, ecc…). Inoltre, 8 imprese su 10 hanno dichiarato di aver proposto sconti tra il 30 e il 50% (la maggior parte ha scelto una percentuale di sconto del 30%). Quasi due imprese su dieci poi stanno praticando sconti medi del 50%.
A gennaio, in pieno periodo di saldi, sono aumentate le vendite di tute, pigiami, intimo e pantofole mentre, in sofferenza risultano cravatte, abiti da uomo e valige. “Solo 3 negozi su 100, delle vere e proprie mosche bianche dicono di aver avuto in incremento – ha sottolineato Torti- si tratta di alcuni settori come gli abiti su misura ed i negozi di intimo, maglieria e pantofole“. L’indagine infatti evidenzia tra i prodotti più venduti: la maglieria con praticamente metà degli italiani (51,3%), giubbotti, cappotti e piumini (39,3%); pantaloni (32,1%); scarpe donna (19,7%); abiti donna (16,2%); tute (15,8%) scarpe uomo (13,7%) accessori (12,8%) intimo (12,8%). In sofferenza le vendite di: abiti da uomo (4,3%); giacche (5,6%) valige (0,9%). I pagamenti preferiti sono quelli cashless, ovvero con bancomat (82,9% delle preferenze); seguono quelli con carta di credito (56,4%), mentre è residuale l’utilizzo dei contanti (11,5%), una scelta utilizzata soprattutto per le spese di importo basso). Ancora basse le transazioni con altri strumenti di pagamento innovativi (2,1%).
“Tra i settori più penalizzati risulta quindi “il dettaglio moda e l’ingrosso moda che, tra l’altro, non è stato indennizzato – commenta Torti – Poi anche gli abiti da cerimonia, soprattutto al centro sud, non si sono più venduti perché non si può partecipare ad eventi, feste e banchetti”. “Un ultimo settore dimenticato – spiega ancora Torti – è quello dei negozi di camicie che nonostante abbiano lo stesso codice Ateco della biancheria intima (che sono rimasti aperti) sono stati costretti a chiudere per il Dpcm del 3 novembre, ma ingiustamente ed inspiegabilmente sono ancora senza indennizzi. E’ una lacuna inspiegabile e fastidiosa“.