BUSINESS INSIDER – Mariella Bussolati
Il comportamento di massa è stato messo in crisi dal coronavirus. Niente più assembramenti, né concerti, né spettacoli, neppure la fila per bere il caffè. Tra i luoghi in cui convergono, per meglio dire convergevano, molte persone, ci sono i centri commerciali. Un ‘assembramento’ di negozi di vario tipo, dove i consumatori possono passare da uno all’altro per fare shopping, e ultimamente anche platee per eventi, musica, intrattenimento di vario tipo, proposti per attirare una clientela sempre più incerta, propongono un comportamento che è esattamente il contrario di quello che dovremmo fare ora. Già prima incominciavano ad avere dei problemi. Potrebbero essere le prime vittime della pandemia.
La nascita dei centri commerciali in Italia risale alla fine degli anni 1970. Nel 1972 ed è stato aperto il primo ipermercato in Italia, il centro commerciale Carosello di Carugate, con una decina di negozi. Negli ultimi vent’anni hanno subito un’espansione senza limiti, oltre 13 milioni di metri quadrati, Secondo l’Osservatorio Confimprese-Reno in Italia ce ne sono 955, a cui si aggiungono 33 outlet.
Ciascuno ha una presenza giornaliera, solo per quelli tripla A, ovvero con utenza sovraregionale, di oltre 10 milioni di utenti all’anno. Già l’anno scorso però l’Indice ShopperTrak Italia aveva evidenziato un’importante flessione rispetto al precedente, il 6,2%.
I problemi sono più di uno. Il Codacons negli anni passati ha fatto numerosi ricorsi alle aperture denunciando il mancato rispetto dei parametri urbanistici e delle norme di programmazione territoriale. Secondo il Nimby forum vengono considerati negativi anche in relazione agli aspetti ambientali: il loro impatto può essere paragonabile a quello di un grande impianto inquinante.
Altri elementi sono il traffico automobilistico che creano e l’impatto sul paesaggio, soprattutto se crescono in aree non urbanizzate. Nel 2018 la Corte di giustizia europea ha confermato a livello europeo la correttezza delle leggi che prevedono di tassare le grandi superfici commerciali per proteggere l’ambiente, dopo che l’associazione spagnola delle grandi imprese di distribuzione aveva tentato di fare ricorso per le imposte applicate in Catalogna, Asturie e Aragona.
Non solo: hanno infatti un effetto anche sui piccoli negozi di vicinato. Uno studio Irer, l’Istituto regionale di ricerca della Lombardia, che però risale al 2006, aveva analizzato 5 casi in Lombardia dai quali era emerso che la realizzazione di 1.000 mq di centro commerciale, portava fino a sei negozi di vicinato a uscire dal mercato.
Il declino è ancora più visibile negli Usa, dove sono nati. Macy’s, J.C. Penney, Lord&Taylor e Neiman Marcus hanno annunciato stati di crisi e Barney e Henri Bendel’s sono stati chiusi.
Secondo Green Street advisor, una compagnia di analisi e ricerche del settore immobiliare, entro il 2021 potrebbe chiuderne il 50 per cento. La pandemia potrebbe segnare la fine.
In questo momento infatti, mentre gli spazi sono aperti perché alloro interno ci sono servizi essenziali come farmacie, edicole, tabaccherie, supermercati gli ingressi giornalieri si sono ridotti tra il 10 e il 40 per cento. Ed è da capire se i singoli negozi riusciranno a sostenere le spese.
I consumatori nel frattempo hanno imparato e reso quotidiano un altro comportamento che aveva segnato il declino: l’acquisto on line. E anche il tentativo di attrarli con spazi espositivi ricercati, che in alcun casi, paradossalmente, simulavano il piccolo mercato, sembra non poter più essere efficace.
La task force di Vittorio Colao, non uno scienziato ma un ex Ad di Vodafone, arruolata dal premier Conte per gestire la fase due, ha messo a punto una lista di 97 voci con l’indicazione del livello di rischio. I centri commerciali sono in classe 4, ovvero rischio alto.
Per tutelare gli utenti, ed evitare la caduta, i centri commerciali hanno previsto termoscanner e mascherine, vigilanza e conta persone, spazi ampi e sanificazioni. Ma forse il futuro del commercio, dopo il Covid-19, sarà del tutto diverso.